GUIDO OLIVERO - Tutti gli uomini vogliono la Luna. I potenti, quelli che scrivono la storia sulla pelle della gente, cercano di andarla a prendere salendo sempre più in alto, calpestando come scalini le teste delle persone. Poi ci sono invece gli uomini di fatica, quelli così piegati dal peso dei sacrifici e dei malanni che non riescono mai a levare la testa al cielo, e così l’unica Luna che vedono è quella in fondo ai bacias.

Nel paese più vecchio della Valle, disperatamente aggrappato al fiume Stura, dieci bacias raccolgono l’acqua di dieci fontane di comunità. Tre sono nelle frazioni e sette nel capoluogo, di cui due in basso, ai Teit, due a metà, la Sutana, e tre in alto, una nella Piazza e le altre lì attorno. Se vuoi trovare il riflesso, il fantasma di Luna che i potenti lasciano in pasto alla povera gente, devi cercare da quelle parti.

La fontana più vecchia è quella della Piazza, detta anche del Preive. Questo prete fa storia a sé, e non solo perché portò l’acqua in paese evitando alla gente di trascinarsi alla sorgente del “Tori” o a quella di San Martino, ma anche perché, delle tre fontane che costruì, l’ultima fu molto chiacchierata ed è destinata a fama imperitura. La prima fu quella della Piazza, la seconda fu quella che fu poi denominata “del Medich”; la terza, quella incriminata fu battezzata dai roccasparveresi “quella ‘d l’usel” – quella dell’uccello – o anche “quella del pois de pera”, ossia “pene di pietra”. Chi ascolta questo racconto potrà bene immaginarne la forma. L’ideatore dell’opera si chiamava don Sebastiano Menardo: mica un libertino, era soltanto uno che sapeva bene cosa aveva tra le gambe e quale era la sua funzione. Così, pur ligio al voto di castità fatto, aveva pensato bene di creare attraverso le tre fontane una sorta di ciclo della fertilità dedicato ai suoi parrocchiani. Non c’erano falsi pudori, a Rocca: anzi, spesso scarseggiavano anche quelli veri.

Dopo le prime tre, nel tempo vennero realizzate le altre fontane utilizzando materiali di risulta del castello Bolleris e della villa dei Brocardo di Citeila Gentile. A Tetto Beraudo vi fu la fontana con il più vecchio bacias del territorio: si parla del Trecento o del Quattrocento. Ci bevevano indistintamente animali e uomini; per tempo immemorabile le donne hanno consumato il candore delle loro mani lavando mutande, camicie e pantaloni. Mani perfette come opere d’arte, seccate e raggrinzite per il tanto servire. Tra le tante mani, restano nella leggenda quelle di Maria, che quando lavava i panni al bacias faceva sognare gli uomini e arrabbiare le donne della borgata. Gli uomini prendevano fretta di uscire, quando lei andava alla fontana, e si sa che le mogli diffidano delle semplici coincidenze, specie se si ripetono per anni.

Ora la fontana è tornata al suo splendore: i ragazzi del Politecnico di Torino l’hanno risistemata e le hanno messo in testa un cappello di paglia di segala ben pettinata. Qualcuno dice che, la notte, Maria abbandoni l’altro mondo per tornare a lavare, stavolta senza gli occhi degli uomini addosso, per il solo gusto di usare una cosa bella e rimirare la Luna che si specchia nell’acqua calma del bacias.

In quella fontana, tranne che nei mesi invernali, si lavavano panni tutto l’anno: nel grande cortile, in primavera e in estate, si faceva la “lessia”. Si prendeva l’acqua dalla fonte e letteralmente si cuocevano le lenzuola delle notti invernali, che avevano alle spalle ben altri tipi di calore: quello delle buiotte scalda letti e quello delle umane passioni. Anche a questo servivano i bacias: a lavare i tessuti dalle tracce di veri o presunti peccati. A lavare l’anima ci pensava il prete.

A monte di questa fontana, non distante dalla strada per la Fransa si trova quella di Tetto Bandet. Fatta di pietra con il suo bel bacias da oltre un secolo e mezzo dà da bere agli assetati: mucche, cavalli, asini, colombi, gatti e cani si sono sempre dissetati lì: dieci leccate e arrivederci. Con la nuova ciclabile, oggi, ogni tanto qualche ciclista riempie la borraccia, senza pensare che forse già il suo trisavolo facendo quel gesto trovò pace per la sua sete.

A Castelletto, invece, c’è una fontana che è una metafora: porta il peso della casa sotto cui è conficcata ed è castigata dalla strada che porta a Gaiola. Somiglia tanto alle nostre montagne d’oggi: quasi ammazzate da logiche assurde, continuano come fontane volenterose a buttare acqua forte e freschissima. Per quanto tempo ancora, la fontana di Castelletto non se lo chiede. È conosciuta come “fonte dei giari”, ossia dei topi. Con il termine Giari venivano anche indicati gli abitanti di Castelletto, che andavano fierissimi della loro fontana, che per fortuna è sempre stata abbastanza potente da riuscire a soddisfare la sete delle vacche dopo la monta e da fornire, nel contempo, acqua a sufficienza da riempire i secchi di rame che la gente teneva in casa per dissetarsi e per gli usi di cucina.

Qui, fra le donne che si recavano al bacias per lavare i panni, si ricorda Ghitin, che aveva un culo grosso che, nonostante gli sforzi, sporgeva sempre di un dieci centimetri sulla pubblica via. Un vero pericolo per i mezzi che con una certa imprudenza gli passavano a ridosso; ma per qualcuno era anche un’attrazione.

Arrivando a Rocha da Caslet per l’antica via di Demonte, oltrepassata la porta detta “Burela” torniamo a raggiungere la più vecchia e ben conservata fontana del paese: la funtana del preive. Roba di lusso: fabbricata nel 1756, ha due baciassi. Il più vecchio è a forma ottagonale con due pisciatoi che lo alimentano. L’altro, di forma allungata era il lavatoio di Maria, Anin, Caterina, Alda, Mariuccia, Lucia, Sablinitta, che dalla primavera al tardo autunno ci davano dentro a lavare i panni. Lavatoio comodo, non dovevano piegare più di tanto la schiena a lavare la roba, mentre nel vicino bacias ottagonale le vacche non solo bevevano ma leccavano anche i bordi coperti di muffa e di muschio. Mangia e bevi, muggiti di soddisfazione. Al bacias aveva ripreso fiato anche Gian Maria Volontè, nei primi anni sessanta, quando Dino Risi girò a Rocca il film “La strada più lunga”.

Nel film Batista ‘d Rubiun davanti alla fontana interpretò una scena vivace e toccante, d’opposizione ai tedeschi che volevano portargli via le vacche. Diciamo che avevano toccato proprio il tasto sbagliato.

Fontana comoda anche per i partigiani di Giustizia e Libertà che andavano a mangiare nella piola del Bersagliè situata un po’ più avanti, dopo la Crusà di San Sebastiano. Vicino alla piola Ettore Rosa aveva lanciato contro i fascisti la sua moto ed era riuscito a beffarli ed a salvarsi rotolandosi giù nella riva del valun di San Giacu, scappando, poi, verso il mulino vicino allo Stura. Ne hanno viste di cose, queste contrade. Siamo noi che non riusciamo più a vedere.

Scendendo gli scalini della piazza, dove inizia la calà ‘d Dalmas si trova la fontana rimaneggiata del Rui. Originariamente era sotto l’orto di Gianin e confinava con quello delle suore. Suor Ilaria andava a prendere l’acqua alla fontana per bagnare l’orto. Riempire il secchio richiedeva del tempo perché la fontana “pisava poc” e nel bacias stretto non potevi infilarci il secchio. L’acqua era color ruggine e si dice che facesse bene alla pelle e alla prostata riducendo i dolori del “mal ‘d la pera” (infiammazione della prostata).

Le donne il bacias non lo usavano perchè non comodo e poi non erano distanti dalla fontana del preive che aveva un quel bacias lungo, alto e comodo. Qualcuno mormorava che il bacias davanti alla canonica non poteva che essere così perché le donne, non piegandosi troppo, non davano scandalo e non confondevano il parcu. C’era sempre questa diffidenza nella gente, per cui il prete era un sant’uomo, ma era meglio non tentarlo. E poi era meglio dividere le cose: la santità era tutta per il parroco, le tentazioni tutte per i fedeli.

Anche Pierin andava a prendersi l’acqua per bere e ogni tanto si vedeva arrivare anche sua cognata, Consolata. Pierin era una persona speciale. Amato da tutti e per anni impegnato seriamente nella amministrazione comunale. Consolata, invece, era una signora molto perbene. Magra, alta e gran lavoratrice: abitavano non distante dalla fontana e in punta alla calà ‘d Dalmas. Ci sono santi che non fanno notizia, per fortuna Dio prende nota e provvede.

Da questa fontana, spostandosi lungo la via Menardi, appiccicata ad una casa si trova la fontana ‘d Menard. Fonte che prende il nome dell’eroe mazziniano, nato a Rocha, e fucilato nella piazza d’armi di Alessandria il 16 giugno 1833 per insurrezione contro lo Stato Sabaudo. Nipote di don Sebastiano Menardo, quello che portò l’acqua in paese e fece costruire le tre fontane dedicate alla fertilità, Giuseppe Menardo era un ufficiale sabaudo che abbracciò la causa mazziniana e per questo pagò con la vita. Faceva parte di quella schiera di valorosi che, come diceva lo stesso Mazzini, portano delle idee in punta ai loro fucili.

La fontana “rivoluzionaria”, con il suo piccolo baciasso, era frequentata e usata da Dina, una donna piccola e tenace che aveva vissuto molti anni vicino a Tolone, in Francia, e poi da Marianina, da Mariarosa e dal suo anziano marito, Simun d’la Cavala. Uomo secco, non tanto alto, gran fumatore e con una gentilezza tutta piemontese. Sarebbe stato un nobile, se la vita avesse distribuito le cariche misurando la larghezza del cuore.

Ritornando sugli stessi passi, si torna davanti alla fontana del Rui, poi si percorre tutta la “calà ‘d Dalmas” (che fatta al contrario si chiama muntà et Dalmas) e, attaccata alla “Cà russa”, si incontra la seconda fontana fatta costruire da don Menardo e successivamente denominata “del medich”. Originariamente era una fontana con due bacias. Ora dopo vari rimaneggiamenti ne solamente più uno, piccolo: è sistemata sotto il fabbricato più misterioso di Rocha. Casa rossa, su tre piani, con agli angoli rettangoli colorati. Questa fontana, anche detta della “sottana”, vicina agli scalini di Lucia, era la più amata dai bambini delle elementari di Rocha perché offriva nascondigli perfetti ed era teatro di memorabili incidenti: ogni tanto qualcuno finiva dentro al bacias più grande. Poco usata per lavare, era invece utilizzata per l’approvvigionamento casalingo.

Pina ‘d Baraca, Rosa, Catlina, Lena, Ana, Piera, Dalmas, Pinotu tutte persone che quasi tutti i giorni andavano a riempire i secchi, li mettevano in fila sulla panca dell’acqua e li svuotavano lentamente con la “cassa” di rame che di solito era appesa sopra. Per lavare i panni le donne della sottana e dei tetti preferivano la fontana ‘d l’usel. Quel coso robusto che pisciava con vigore l’acqua nel grande bacias invogliava le donne di mezzo paese a darci dentro con i panni e le camicie. Almeno, questo era quello che si diceva: dopotutto la storia del peccato non era iniziata tutta a causa delle donne? L’acqua, si dice, era la più fresca di Rocha e anche la più buona. L’usel aveva poteri magici o semplicemente considerata la lunghezza del coso l’acqua si refrigerava di più. Chi poteva dirlo? Il segreto lo sapeva il prete, ma nessuno aveva il coraggio di andare in canonica a parlare di uccelli. Una abituée della fontana era Ghitin, madre di Batista ‘ d Carnera. Donna piccolina, sempre vestita di nero e con un fazzoletto colorato in testa. Spesso la si vedeva piegata dentro il bacias a lavare la roba di Batista che amava vestirsi, la domenica, da “picieur” e sempre con il fazzoletto stretto attorno al collo. Anche Mussolini s’era fermato a bere l’acqua sputata da quel coso e si dice che per una sorta d’invidia del pene non l’avesse digerita. O magari semplicemente presagiva che questa terra non faceva per lui.

La fontana piaceva anche a Petu et Pianfei. Alto, magro, senza culo e con i capelli appiccicati alla fronte, lui alla fontana non andava a bere, perché non era tipo da acqua. Ci andava a “piumare” le galline che gli regalavano. All’acqua fresca della fontana et l’usel lui preferiva il vino della Società Agricola Operaia situata non lontano dalla fontana. Anche Matè frequentava la fontana dove ogni tanto seduto sui bordi del bacias teneva lezioni scientifiche ai ragazzini delle elementari. La sua lezione preferita era la descrizione della teoria che la terra non gira. Prova ne era il fiume, non distante dalla fontana, che andava sempre giù e mai su. Anche il Messu frequentava la fonte per innaffiarsi l’orto lì di fronte, che si affacciava a picco sul fiume. Alla fonte si fermava anche Petu di fidei che quando scendeva da Ciapin sostava vicino al pene di pietra a raccontar grasse storie alle donne che lavavano e poi tra sorrisi e “mola li”, con lentezza, si avviava a bersi la meza buta alla rinomata Società.

Negli anni Cinquanta del secolo scorso il coso in pietra fece una brutta fine. Considerato religiosamente scorretto venne rimosso e poi con i lavori di sistemazione stradale anche i bacias presero il volo. Oggi, in posizione meno felice, si trova una fontana con un piccolo bacias in pietra di luserna. Un cartello ricorda che nei pressi c’era la vigorosa fontana amata e invidiata da donne e da uomini. Il fatto di essere stata costruita da un prete, di aver alimentato le più fervide fantasie e di aver mezzo avvelenato Mussolini non bastò a salvarle la vita.

Attraversando il ponte e salendo per la via denominata della “golonera” o del “gulun o gurgiun” c’è la fontana della “ganassa”. Due bacias a forma di squadra dove le donne da sempre lavano i panni. Fontana sobria, essenziale. Nel secolo scorso ha fornito l’acqua alle famiglie dei “Lumbrin”, dei Viale e a quelli della “Bulana”. Anche Tunin el sop tirava l’acqua alla fontana. Piccolo, storto e con la gobba, di mestiere faceva il calzolaio ma alla manutenzione delle scarpe preferiva il gioco a “berlan”, alla Società Operaia. La stessa cosa faceva il “filosofo” Giors et Madalena mola che non amava mescolare i vizi, per cui beveva solo l’acqua della fontana ma in compenso ci dava dentro con il gioco di carte ed era un vero genio nell’impostare le parole crociate per la settimana enigmistica. Oggi i bacias della fontana sono presi d’assalto dai canoisti che li dentro ficcano di tutto, tute, scarpe, mutande, remi, canoe, suscitando lo sconcerto di tutte le donne che vivono in quella via e che i bacias continuano ad usarli per lavarsi le mutande e le gonne. Ma i bacias che hanno sopportato tutto, animali dal volto umano e uomini dal volto animale, sono pronti a tutto.

Girando l’angolo e seguendo il mal tracciato sentiero tra gli orti, si passa davanti al forno della comunità dei tetti, da poco recuperato, e arrivando in fondo alla via del forno, dinnanzi, sulla destra, si trova la fontana ‘d Rubiun. Fontana con un solo bacias, nata da una protesta degli abitanti dei Tetti capeggiata da un Rubiun. Siamo verso la fine dell’Ottocento e la gente dei Tetti era stufa di andarsi a prendere l’acqua lontano. Quindi, quasi una mezza rivoluzione ed ecco che il Comune fa costruire la fontana. Costruita con maestria, in stile quasi “liberty”, è la fontana dove le famiglie dei Rubiun, dei Masuè, dei Torretta, dei Ciapin si sono dissetate per secoli. Anche Bin, il panettiere di comunità, la frequentava per prendere l’acqua. La usava per ammorbidire il “penass” che usava per pulire il forno dopo aver fatto cuocere il pane e prima di infilarci i piatti delle “siule piene e dei persi pien”. In quel bacias i panni non si sono quasi mai lavati. Primo perché poco comodo e secondo perché la fontana ‘d l’usel, quella meraviglia del paese, non era lontanissima.

Questa è la storia delle fontane di Rocca e della gente che ci visse attorno. Uomini dalle unghie sporche, donne senza mutande che pisciavano da in piedi, gente piegata dalla fatica che mai alzava la testa e la Luna la poteva vedere soltanto riflessa nell’acqua delle fonti.

Ma un giorno qualcuno scoprirà che la Luna vera, quella autentica, era quella che dormiva in fondo ai bacias, e che il segreto della vita non era nelle armi dei forti e ai potenti, ma era nelle menti semplici e nelle parole stentate di Petu et Pianfei, Ghitin, Cechina, Catlina, Giors et trona, Trumblin, Matè et giurdan, Giors 'd Madalena mola, Bastian, Giors 'd la buteia, Matè banda, Tilde, Bertu et la cavala, Celeste et Ciapin, Celisbacu, Chelu, Terinu, Bin, Chichimilu, Pin ciot, Pinu et baraca, Giacu et titot, Batista et carnera e di El cunsu, quello che, quando aveva dietro i carabinieri che gli stavano al culo, riusciva a saltare canali larghi sei metri, e in un attimo era al sicuro, in quel piccolo mondo antico così fragile da vivere, così facile da morire.

Guido Olivero