CUNEO CRONACA - Riceviamo e pubblichiamo la lettera-manifesto di un gruppo di genitori di ragazzi disabili che frequentano il Centro Casamica di Busca, in provincia di Cuneo, inviata alla Regione. "Sono una mamma di una giovane ragazza speciale, Cristina. Scrivo a nome di altri genitori che come me hanno figli speciali e potrei anche elencare i loro nomi: Lauretta, Valentina, Francesco, Alessio, Alex, Tatiana, Cristhian, e poi ancora Cinzia, Fabrizio, Paoletta, Paola, Valentina, Franca, Debora, Mirco, Stefano e altri, tanti, più di quanti non si pensi. Certo, ne sono consapevole, questo elenco che per noi genitori è rappresentativo ed emblematico, dal momento che ad ogni nome si associa un viso, un sorriso e pure un limite con il quale convivere ed altresì una forza che ci è maestra ogni giorno, questo elenco per chi legge è viceversa anonimo e insignificante. Tuttavia ritengo che sia utile che il lettore faccia uno sforzo e si metta almeno per il tempo della lettura nei nostri panni, affinché questo scritto e le ragioni che vi sono espresse non restino il classico sfogo di qualcuno che si trova con l'acqua alla gola, boccheggiante, o peggio, il deplorevole tentativo di strumentalizzare i propri figli disabili per suscitare pena e per farsi dunque compatire. In effetti non si ha la voglia di raccontare i dettagli (più o meno simpatici, più o meno eleganti e riferibili) della nostra vita quotidiana ad un lettore che magari non è avvezzo (per sua fortuna) ad affrontare certe serie se non serissime problematiche, proprie ed altrui, che compongono la nostra routine, di tipo prettamente logistico oltreché "morali", (morali perché attinenti alla sfera psicologica, comportamentale, dell'umore, del rispetto, della responsabilità, dello spirito, della cura e presa in carico ecc.). Si è stanchi di dover ogni volta accendere i riflettori su quello che per noi è la normalità, e sappiamo benissimo che chi ha un po' di immaginazione, anzi, di sensibilità, capisce senza dover spiegare, aiuta senza che si debba chiedere, c'è anche quando ci si sente soli.

Noi non stiamo cercando sollievo nella visibilità che può suscitare una lettera pubblica che assume le sembianze di un manifesto. Noi stiamo cercando delle risposte concrete a quelle che per noi sono le abituali difficoltà da quando ci si alza al mattino, fino a quando ci si corica la sera (ammesso che i figli ci lascino riposare qualche ora consecutiva durante la notte). Alcune risposte a queste nostre esigenze materiali e spicciole, che vanno dal semplice fatto di poter andare al lavoro, fino all'ancor più semplice fatto di poter avere la testa libera per qualche ora al giorno sapendo che qualcun altro si dedica ai nostri ragazzi e non si è gli unici a doverli accudire. Ecco, queste risposte minime ma essenziali ci erano state date dalla possibilità di frequentare quei Centri diurni che per i nostri figli sono parte integrante della loro esistenza, una benedizione, per l'appunto, in cui possono sentirsi a loro agio, in cui fanno attività da cui traggono soddisfazione e gratificazione perchè sono loro confacenti, perché sono alla loro portata, perché li fanno sentire come si sente chiunque quando banalmente vive. Banalmente normale. Ebbene, bon sto qui a dilungarmi sul perché anche i Centri diurni siano stati obbligati a chiudere durante la quarantena, citando a destra e a manca i vari Dpcm o le varie Dgr attuative. Sono cose note ed inoltre ve le risparmio sapendo che sarò già abbastanza lunga di mio, volendo offrire un quadro il più possibile completo della nostra situazione attuale. Dopo la chiusura totale, durata dall'11 marzo al 15 giugno, timidamente i Centri diurni sono stati riaperti, seppure con notevoli limitazioni in termini di giorni di frequenza, di servizio di trasporto, di attività e laboratori, sia interni che esterni.

Di tutto ciò, sin da subito, si è detto e si dice un grosso grazie! Siamo grati e comprendiamo l'impegno che c'è stato da parte di chi di dovere per arrivare a questo punto nell'erogazione del servizio riservato di diritto ai nostri figli. Ma ci permettiamo anche di sottolineare che ora non basta! Non basta perché si può e si deve fare di più. Perché molti dei nostri figli ancora non hanno ricominciato a frequentare il Centro, poiché manca il servizio di trasporto e i loro genitori sono anziani o impossibilitati ad accompagnarli e riprenderli nei due/tre giorni in cui potrebbero accedere al Centro. Non basta perché non ha senso che per i pullmini che portano i nostri figli i criteri di capienza siano inferiori rispetto a quelli adottati per il trasposto scolastico dello scuolabus (sia chiaro, anche se forse non è così ovvio: non esistono ragazzi di serie A e ragazzi di serie B, tanto per rubare la terminologia calcistica. Non per noi!). Non basta perché non è concepibile che ancora sussista il binomio disabile ovvero malato e che quindi venga imposto di lavorare a piccoli gruppi di un massimo di 5 componenti per gruppo, due operatori e tre utenti, oppure un operatore e quattro utenti, e nei casi più gravi, che addirittura il rapporto sia necessariamente di uno a uno, senza che mai e poi mai si possano mescolare i gruppetti, senza tenere in alcun conto che le relazioni, le simpatie-antipatie, i gusti e le passioni personali possano garantire l'efficacia o meno degli interventi specifici su ciascuno di loro, senza ritenere che gli abbracci e le carezze, il contatto umano (tanto per dirne qualcuna tra quelle che avrei da dire) siano di vitale importanza per i nostri figli (come per tutti del resto).

Non basta perché in situazioni di emergenza come questa è impensabile che vengano ridotte le ore contrattuali agli operatori (educatori e OSS), imponendo il part-time a qualcuno che invece era a tempo pieno, o che addirittura se ne licenzi qualcun altro, anziché contemplare l'ipotesi di assumere nuove risorse (come volgarmente vengono chiamati i nostri più attesi collaboratori, educatori che si sono preparati per avere a che fare con la disabilità, acquisendo quelle competenze che non s'improvvisano). Non basta perché non si può pensare di mettersi la coscienza a posto ed accogliere i ragazzi facendoli turnare come se si potessero adottare degli schemi che contemplano la frequenza alternata di 3 giorni, la prima settimana, 2 giorni, la seconda, per un totale di 5 giorni ogni 15 giorni, quando invece il regime solito è di 5 giorni su 5 sapendo benissimo che qualsiasi minimo cambiamento di ritmo è per i nostri ragazzi motivo di ansia, ossessionati come sono dalla ripetitività compulsiva delle azioni, vittime di quelle stereotipie (anche assurde) che li fanno andare fuori di testa se non vengono assecondate. Non basta perché non sta né in cielo né in terra che se si vuole fare richiesta per il soggiorno di sollievo adesso si debba sottoporre il proprio figlio al tampone (sulla qual cosa non si discute perché pratica preventiva e diagnostica, ci mancherebbe!) e quindi, al di là di quello che sarà l'esito, seppure questo fosse negativo, infliggergli 14 giorni di isolamento nella struttura in cui viene inserito, esaurendo così, in completa solitudine, il tempo di ricovero temporaneo previsto prima di tornare a casa.

Possibile che non si immagini con quali pensieri si accompagnerà un ragazzo in tali circostanze se non con quelli di sentirsi abbandonato da tutti, segregato come un appestato, inutile al mondo? E noi a casa, cosa si crede, forse che si possa starsene sereni e recuperare un po' di energie senza avere l'assillo, il tarlo mentale e quel maledetto senso di colpa che già ogni attimo ci divora anche contro il nostro volere all'idea che nostro figlio sia messo in una stanza ad aspettare che il tempo passi? [Il soggiorno di sollievo significa, per i non addetti, poter affidare il tuo ragazzo disabile ad una qualche struttura residenziale solo temporaneamente, per qualche giorno (per esempio per il week-end) in modo da prendere fiato e dedicarti un po' a te stesso, agli altri figli, al coniuge o altri parenti e amici, per dormire, per bighellonare. E' uno strumento assai utile per ri-ossigenarsi noi come genitori, e per emancipare o far sentire emancipato il proprio figlio che cresce e prima o poi non potrà solo più fare affidamento su papà e mamma che, d'altro canto, invecchiano].

Noi genitori abbiamo accettato riconoscenti, lo ribadisco, questa riapertura monca dei nostri Centri diurni quando tutto era incerto e confuso e si andava per tentativi. Si capiva la situazione condizionata dall'emergenza sanitaria ed in effetti con la stessa gradualità a giugno hanno ripreso molte altre realtà del Paese, vedi le fabbriche, le piccole aziende, il commercio al dettaglio di quei generi che non erano stati considerati indispensabili. Ma ora! Perché continuare ad applicare le stesse rigide regole solo per certe situazioni (Centri diurni e relativi servizi, oppure RSA – RSD) quando invece tutto il resto è pressoché a pieno regime? Perché ancora una volta non capire che essere diversi è essere uguali, sebbene con le debite differenze ed invece si accetta e si sottolinea il contrario? Io, noi genitori di ragazzi diversamente abili, lo diciamo da una vita: diverso è uguale! E' uguale perché uguale è il riguardo che si deve porre verso ogni individuo, perché uguale è lo spazio, metaforico e reale, che ogni individuo occupa in una comunità che voglia dirsi civile.

Quali sono dunque le nostre richieste? Sarebbero tante, ma in sostanza sono una sola. Chiediamo la normalità e non l'eccezione per i nostri ragazzi. E questo lo chiediamo a beneficio di tutti, anche in ragione del risparmio economico al capitolo assistenza. Perché, e non è difficile da comprendere, il Coronavirus già di per sé è stato, è e sarà un vero e proprio salasso per lo Stato, facendo aumentare notevolmente gli impegni di spesa in ordine ai costi di gestione delle strutture che accolgono i nostri ragazzi e tutto ciò che ci ruota intorno, onde per cui, cercare di non sprecare il denaro pubblico è senza dubbio un tentativo virtuoso che si riverbera sulla collettività e fa bene alle tasche dei cittadini onesti, perché contribuenti. Ecco perché si chiede che i nostri figli disabili siano considerati alla stregua degli altri figli normo-dotati, che non ci sia pregiudizio nei loro confronti bensì equità di trattamento. Che ci sia un'attenzione uguale a quella che si ha per tutti, dove appunto attenzione uguale significa anche e soprattutto particolare, puntuale, adeguata. C'è una sottile linea di confine tra l'uguaglianza e la diversità, tra l'handicap e la normalità, tra lo straordinario e l'ordinario. Talvolta la linea è talmente sottile da non vederla, tanto che spesso si tratta chi è diverso con la pretesa che sia uguale, o al contrario, si tratta chi è uguale come se fosse diverso. Il che, tradotto in parole povere, vuol dire che non si deve mai dare per scontato nulla; che si deve approfondire ogni discorso, che non si è mai arrivati alla meta, perché raggiuntala ci si accorge che l'orizzonte è assai più vasto di quello che si vedeva da lontano e che le potenzialità, le possibilità sono infinite; che le cose, per quel che concerne l'azione, vanno continuamente messe in discussione mossi dall'unica certezza che il divenire necessita del cambiamento, dell'adeguamento, del raddrizzamento della rotta o della sua deviazione, se non persino della sua retromarcia; che si deve calibrare il giusto accento sulla varietà delle contingenze declinandola con il rigore suggerito dai principi di equità. Quest'ultima è impresa ardua, ma affascinante! Avere un figlio disabile è una croce (per dirla in modo che sia comprensibile a tutti).

I nostri figli non si alzano se non ci siamo noi a vestirli. Non scendono le scale se non ci siamo noi a dar loro il braccio. Non mangiano se non li imbocchiamo. Non parlano se non diamo loro la nostra voce, interpretandone le smorfie o i sospiri, gli sguardi. Fanno ben poco da soli, in autonomia. Ma hanno le antenne dritte! E avvertono se siamo tesi, seppure noi non lo si dica; se siamo stufi, sebbene noi non lo si palesi; se siamo arrabbiati, quantunque noi non si gridi. E se noi scoppiamo è un guaio! Un guaio grosso, è un guaio per loro, per noi, per tanti! E so per certo che qualcuno di noi è già scoppiato. E questo grava, infatti, su tanti. Qualcuno di noi è arrivato al gesto limite in questo periodo in cui l'angoscia si è impossessata di chi si è sentito trascurato, minacciato, solo!, in cui le vie di uscita erano o sembravano tutte bloccate, in cui l'ascolto verso la voce estenuata di una piccola parte della società che sopporta con amore condizioni costantemente complicate e difficili non c'è stato. Se è vero che tutti si è sofferto di privazioni di libertà e anche di noia, oltre che di tutto quello che ciascuno sa per se stesso, è ancora più vero che i nostri figli (e noi con loro) si è sofferto di più. Perché i nostri figli non hanno mezze misure: o è tutto o è niente, o è bianco o è nero. Per tantissimi di loro (e di noi) è stato per lo più il nero, il buio a prevalere sul resto.

Avere un figlio disabile è una croce ed è una delizia, di sicuro, ma perché sia anche una delizia bisogna alacremente motivarsi e rimotivarsi, sovente e sempre. Tanto più oggi, in una società che esalta l'estetica e i suoi rigidi canoni quale unica forma di bellezza; che rincorre la massima produttività e l'ottimizzazione dei sistemi quale unica espressione di intelligenza; che si bea nel prefigurarsi la virtualità quale sostituta del reale e come tale tenta di rimpiazzare i consueti canali di comunicazione, di scambio, di relazione (vedasi quanto si sono imposti i social, la rilevanza della criptovaluta in certi contesti macro-economici che a me sembrano fantascienza ma che saranno forse il futuro, o anche soltanto la tanto recente quanto discussa DaD di cui ciascuno di noi, grande o piccolo che sia, ora sa). Ho accennato prima al termine NORMALITA' e l'ho ampiamente e volutamente ripetuto in barba alla buona regola dello scrivere. Ebbene. Di questi tempi è davvero un termine che è sulla bocca di tutti. Tutti auspichiamo il ritorno alla normalità dopo lo scossone suscitato dalla pandemia, dopo il forzato lockdown, dopo la tanta, troppa sofferenza patita collettivamente, pur a più livelli, chi più chi meno. MA (perché un MA c'è ed è silenzioso, garbato per quanto carico di rabbia. E questo MA! che c'è ha addirittura il punto esclamativo, poiché deve pesare come un macigno sulle coscienze)... MA!, dunque, se tra le priorità, a proposito di ritorno alla normalità, nelle esternazioni dei nostri governanti c'è la riapertura degli stadi alle tifoserie, c'è la riapertura dei circoli di bridge, c'è la riapertura delle palestre per body building e fitness, ossia ci sono tutte le riaperture lecite e possibili, importanti e dovute, MA! non c'è menzione, neppure vaga, della riapertura a pieno regime dei Centri per disabili, siano essi residenziali o diurni (comprese le RSA), con tutti servizi annessi e connessi, allora la cosa mi offende, mi avvilisce, mi fa dire che la nostra società, tanto evoluta, tanto paritaria, tanto progredita in realtà ha perso l'anima.

Anche noi, genitori normali di ragazzi normalmente disabili, auspichiamo la normalità, per loro e per noi. E siamo sicuri che l'auspicio non si limita ad essere un semplice desiderio, ma è la formale richiesta affinché vengano riviste quelle severe norme che ingessano ogni tipo di attività laboratoriale o motoria, interna ed esterna, che limitano e confinano ogni tipo di rapporto, di relazione all'ambito risicato di piccoli gruppi di lavoro composti da un numero esiguo di componenti, che ci privano del servizio di trasporto da casa al centro, servizio fondamentale ed essenziale in alcuni casi per poter fare in modo che i ragazzi tornino ad uscire senza i famigliari al seguito, da soli, lasciando le proprie quattro mura domestiche, in cui si sono rifugiati e dove hanno perso quella poca fiducia in se stessi duramente guadagnata. Frequentare il Centro a questi ragazzi consente di riconquistare, al contrario, la poca autostima che faticosamente avevano raggiunto dopo interventi mirati di anni e anni.

I protocolli per la sicurezza e le linee guida da applicare ai nostri Centri diurni, oggi come oggi, si compongono di regole talmente stringenti da diventare incomprensibili ai nostri occhi (come agli occhi degli stessi operatori del settore e come a quelli di chiunque abbia un po' di buon senso), se paragonate a quelle che si osservano in riferimento ad altre realtà diverse, ma simili, come può essere la scuola, imposte, sì, in nome di una condivisa tutela della salute, ma alla luce di certe evidenze, non più condivisibili. Non esiste il rischio zero, in momenti di pandemia. Non esiste per nessuno. Si può averne paura, si possono adottare tutte le misure di salvaguardia della salute, si può non andare a cercarsi la grana. Ma non si può sventare in assoluto un potenziale contagio.
Perché, ed è parere unanime dei più emeriti epidemiologi o infettivologi o immunologi che ci hanno inebetiti col loro parlare sovente contrastante, non esiste il rischio zero, in momenti di pandemia. Ed è l'unica cosa certa! Non esiste! Non per i giovani che si divertono nella movida o per i bambini che vanno ai giardinetti, o per coloro che fanno signorilmente running nel parco, né per gli anziani che giocano a carte seduti intorno al tavolino del circolo. Non per i turisti che si recano in quelle località da sogno e che si assembrano sui traghetti, sui treni, sugli aerei. Non per chi visita in tutta pace città d'arte, musei e mostre o per chi partecipa con ingressi contingentati a spettacoli teatrali, concerti e fiere. Non per chi riapre i cinema o i ristoranti o gli alberghi o qualsiasi tipo di ristoro. Per nessuno!.

Neppure, e lo dico con profonda amarezza, esiste il rischio zero per quegli anziani e disabili che sono malauguratamente reclusi dietro le finestre delle loro prigioni d'oro nelle strutture a carattere residenziale, obbligati a guardare il mondo, fuori, che pian piano si rianima, mentre per loro no, nulla muove. A loro non è concesso che si muovano per uscire a prendere una boccata di aria fresca in compagnia di un famigliare, magari a casa propria, magari sulla panchina di un belvedere. Perché ancora a loro è precluso, vietato il contatto umano al di fuori di quello che hanno ormai da circa sei mesi solo ed esclusivamente con il personale di servizio? Un giorno, forse, toccherà anche a noi essere messi in una casa di riposo. Forse, almeno in allora, capiremo il sacrificio grande che si è chiesto, lo strazio che soltanto i vecchi hanno vissuto. O forse no. Forse egoisticamente, provvidenzialmente, non ne avremo Memoria. E nemmeno per i nostri figli che ricominciano ad andare ai Centri diurni. Nemmeno per loro esiste un rischio zero. Neppure se li volessimo tenere sotto una campana di vetro. Noi, come genitori di ragazzi disabili, lo sappiamo per esperienza che il rischio zero non esiste, perciò siamo pronti, forse più di altri, ad assumerci la nostra parte di rischio, responsabilmente, prudentemente, consapevolmente.

“Adelante, Pedro, cum judicio, si puedes”, diceva il Gran Cancelliere Ferrer del Manzoni che di peste e pandemia ha scritto, facendone un capolavoro. Adelante, dunque! Osiamo dove si può osare. Metteremo le paure alle spalle. Vivremo meglio. Tutti".

Cecilia Dematteis,
e il gruppo di genitori del Centro Casamica di Busca, tra cui:
Rosalina Chiapello
Renata Bonelli
Anna Maria Giorgis
Elsa Rainero
Giovanna e Teresio Delfino
Germana Acchiardi
Gian Maria Venturini
Simona Donadio